di Nikola Tenevová

Quest´anno ha vinto il terzo premio nella categoria Notizie generali di World Press Photo. Appena tornato da Gaza, sta già pianificando il ritorno in Sud Sudan per l´anno prossimo. Con il fotoreporter di guerra fiorentino abbiamo parlato delle gioie e tormenti della sua professione.

Gianluca, tu sei stato nei Balcani, in Nordafrica, Sudan, Libano, Haiti, a Gaza… Qual è la tua motivazione per lavorare nelle zone di conflitto?

Durante un conflitto le emozioni, i sentimenti, i comportamenti delle persone sono estremizzate al massimo. Non c´è tempo per tutte quelle ipocrisie che invece si trovano nella vita normale. Odio è odio e amore è amore. Quasi tutti i paletti della vita normale se ne vanno. A quel punto mi sembra che restino le cose più vere che mi interessano fotografare. Poi sono nato nella cronaca dei quotidiani, quindi la fotografia la vedo molto relazionata alla notizia.

Prima hai lavorato per alcune agenzie, tra cui Massimo Sestini News Pictures. Dopo hai deciso di smettere di lavorare per altri e hai preferito fare il freelance. É stata, quindi, la tua scelta libera?

Si. Circa due anni e mezzo fa ho lasciato l´agenzia per dedicarmi ai progetti personali.

Lavorare come freelance ha sia tanti vantaggi che svantaggi, tra cui l´insicurezza di vendere il proprio lavoro. Come ti trovi in questa posizione, lavorando per te stesso?

Le difficoltà più grandi sono senza dubbio quelle economiche perché, appunto, non c´è la certezza di vendere un lavoro. Però io credo che se si fa un buon lavoro con una buona storia, questo si vende sempre. È vero che investi su un argomento, su un viaggio, su una storia in particolare e può darsi che la storia poi non interessi o non abbia molto successo. Questo fa parte del gioco. Penso che nella bravura del fotografo, in questo campo, debba essere anche la capacità di annusare le storie. Dipende anche dal momento storico, devi sapere quando proporla, quando farla vedere, devi saper dire quando la storia è matura per essere mostrata, quindi anche saper aspettare a volte è importantissimo.

Secondo te il fenomeno dei freelance è il futuro trend della professione del giornalismo di guerra?

Il freelance ha una grandissima tradizione nel nostro lavoro. Anzi, direi che la tradizione del nostro lavoro è proprio nei freelance. Nel fotogiornalismo negli ultimi due anni è stato palese che i freelance sono stati più efficienti di grandi agenzie, sono stati più motivati, più bravi. Ovviamente non si può fare concorrenza alle agenzie al livello quantitativo perché sono degli enormi colossi. Ma puoi fare un lavoro diverso, approfondito, più tuo. Ripeto, se tu fai un buon lavoro, quel lavoro poi viene riconosciuto. Io ho molta fiducia in questo perché penso che a volte sia più importante la determinazione e la perseveranza in questo mestiere, piuttosto che la fotografia in sé. Quindi direi che nel futuro ci vedo proprio bene i freelance. Il discorso è che noi freelance non abbiamo nessun tipo di garanzia per costruirci un po´di solidità.

É quello che andrebbe cambiato.

Si, senza dubbio. Forse sta già cambiando. Ma purtroppo sta cambiando in un momento in cui ci sono poche testate che vogliono un buon giornalismo e che investono denaro.

Ma é solo per il motivo economico?

No. Siamo in un periodo difficile sia per motivi economici, sia per motivi sociali. Penso che il giornalismo di guerra sia stato molto strumentalizzato e ora la gente è assuefatta, ha perso di sensibilità. Questo perché anche quando il giornalismo è buono, è usato male. La scusa di molti editori che ho sentito dire mille volte è che il pubblico non è più interessato a quello che succede fuori. Ma se un editore da colpa ai lettori, è una bugia. Se io metto un buon prodotto, il giornale verrà comprato. Non ci sono altre leggi. Parliamo invece degli inserzionisti che accanto a un bel culo col costume non vogliono la foto di un bambino smembrato a Gaza. Comunque penso che la colpa sia un po´ di tutti. Ormai una foto giornalistica costa meno di un preservativo, quindi facciamoci delle domande.

Non ci credo.

Io ho visto i rendiconti di alcune foto dalla Siria per cui il fotografo riceveva due centesimi. Perché passano tanto di mano, da un´agenzia all´altra e poi al fotografo gli arrivano due centesimi… Ovviamente sono degli eccessi, però è successo.

Torniamo alla tua storia. Quest´anno hai vinto il prestigioso World Press Photo per il tuo reportage BlackOut che accentuava la crisi energetica a Gaza. Stai però lavorando su un altro progetto: Behind the lath meh (Dietro il passamontagna) sui militanti palestinesi. Come sta procedendo il lavoro e qual è il suo obiettivo?

Non so quando un lavoro può considerarsi finito, però sicuramente sono arrivato a quel punto in cui il lavoro deve uscire e deve essere visto. Volevo far vedere il lato umano delle persone che sono spesso considerate terroristi. Il termine terrorista generalizza tanto il nemico, lo mitizza abbastanza, lo disumanizza. Cosa è un terrorista? È peggio di un criminale tradizionale, è qualcosa di superiore, spesso sembra che sia un mostro a sei braccia. Io ero incuriosito da questo, volevo sapere che cosa c´è dietro. Durante la guerra del 2012 c´era un corteo per un funerale di un comandante delle Brigate Ezzedin al-Qassam. C´era un combattente con mitragliatore con nastri di proiettili intorno al collo. Stavo fotografando questo personaggio e ho visto che aveva la fede al dito. Se aveva la fede voleva dire che era marito, probabilmente era padre, sicuramente era un figlio, un fratello. Quindi il progetto vuole mostrare il lato umano dei combattenti della resistenza. Tutte le guerre di resistenza sono sempre state intricate nel tessuto sociale civile. Quindi il discorso di usare gli scudi umani come strategia di combattimento è molto impreciso: Hamas è le persone. È dentro le famiglie, le famiglie lo sostengono. E se non è Hamas, è il Jihad Islamico, Al-Fatah o un altro gruppo. È ovvio che un terrorista, se lo vuoi chiamare così, ha una moglie. E se lui si nasconde nella casa di sua moglie, non la sta usando come scudo umano: quella è la sua casa, quella è la sua famiglia, però lui è ricercato come terrorista. Poi all´interno di questa realtà sicuramente si possono sviluppare le realtà più piccole interne, dove qualche persona che ha perso l´equilibrio decide di far saltare l´autobus a Tel Aviv. Quello può essere chiamato terrorismo. È però un estremismo che poi viene usato per chiamare terrorismo tutta un´altra situazione che il terrorismo non è.

Volevo soffermarmi un attimo su due complesse questioni. La prima questione è il fattore del rischio. Ti sei mai trovato in una situazione in cui rischiavi la salute, per non dire la vita?

Certo. Si pensa che rischiare la vita sia qualcosa di romantico, qualcosa che si percepisce immediatamente. Ma te ne rendi conto di più dopo. Per dire, a Gaza non c´è un posto sicuro dove stare. Per i giornalisti ci sono questi tre quattro edifici di cui sappiamo che non verranno bombardati, per il resto è tutta zona rossa. Nessuno sa quale edificio verrà bombardato, quindi può diventare rischioso anche un semplice giro in macchina. Edificio sbagliato, momento sbagliato, non te ne accorgi neanche. Ma è un po´come un incidente stradale. Pensa a quanto è alta la probabilità che una macchina ti venga addosso. In guerra è un pericolo molto simile, chiaramente le probabilità si alzano.

In un certo senso rischiosa è anche la fase di post-ritorno perché uno deve “digerire” quello ha vissuto nella zona di conflitto. Alcuni giornalisti soffrono d’insonnia, di depressione, di sentimento d’isolamento che, nel peggiore dei casi, può portare alla sindrome post-traumatica da stress. Ognuno che ha vissuto qualcosa del gene, deve in qualche modo “purificarsi”. Che cosa fai tu per rilassarti quando torni a casa?

Vado sulla mia barca a vela che ho costruito, sto con gli amici e cerco di fare le cose piuttosto leggere.

La seconda complessa questione è quella etica a cui, probabilmente, non esiste una risposta chiara. Secondo te esiste un limite per scattare una foto in zone di conflitto? Qual è il tuo, se lo sai definire?

É un tema a cui ci tengo molto. Un sacco di volte ho deciso di non fotografare. Penso che sia un limite personale, ognuno decide dove fermarsi. Ho fatto le foto in situazioni così estreme al livello emotivo, che penso sinceramente di non avere nessun limite. Però un sacco di volte non ho scattato, quindi vuol dire che questo limite c´è. Però non è un limite fisso, non si può dire che oltre lì non si va. Io penso che un buon fotografo si renda conto quando si può fare una foto e quando non deve farla.

Le persone che fotografi, come reagiscono? In generale ti concedono fare la fotografia o si sentono offese perché si trovano in un momento difficile della loro vita o, forse, non percepiscono nemmeno la tua presenza?

No, no, ti percepiscono. Io cerco sempre di farmi accettare. Ci sono dei momenti in cui non c´è il tempo. Un funerale a Gaza si svolge in pochissimi minuti, corrono per centinaia di metri e c´è una calca pazzesca. Ovviamente se posso, tendo ad essere accettato. Ad alcune famiglie ho proprio chiesto se potevo partecipare al funerale, anche se era ovvio che potevo perché c´erano altre decine di giornalisti. Io preferivo chiedere, anche perché quando sei accettato hai un altro accesso rispetto a quando non chiedi. Io ho bisogno di un rapporto con un soggetto che fotografo: a volte è un´occhiata, a volte solo uno sguardo o semplicemente un´atmosfera che ti fa capire se puoi fare la foto o no.

Potresti raccontare ai nostri lettori su quali progetti stai lavorando adesso? E dove potremmo vedere la tua mostra Behind the lath meh?

Magari diventasse una mostra! Mi piacerebbe portarla in giro. Vorrei anche che diventasse una mostra il BlackOut perché l´avevo pensata per una galleria. Ma a parte questo ci sono due progetti a lungo termine per cui sto cercando i finanziamenti. Il primo sarebbe un reportage approfondito sullo squilibrio delle ricchezze che parte da un report di Oxfam sul fatto che un centinaio di persone nel mondo possiede l´equivalente di ciò che dovrebbe appartenere a 4 miliardi di individui. Il secondo è il Tanit Project: il mio progetto di vita che non ha delle scadenze. Tanit è la mia barca a vela su cui vorrei ripercorrere le rotte degli antichi Fenici, dedicandomi alla documentazione del Mediterraneo. Basandosi sul concetto di viaggio come segreto dell´evoluzione umana, Tanit Project sarebbe un contenitore di tanti altri progetti: si propone di mettere insieme gli individui attraverso un lavoro fotografico, giornalistico, antropologico, sociale e ambientale.