Se parlo con mio padre di Livorno, riesce a ricordare solo Armando Picchi, calciatore il cui merito è di aver fatto della città amaranto un feudo di tifosi interisti. Conosce un porto, non brutto, ma un porto: come Ancona, come Civitavecchia. Lo stesso porto di mare in cui si imbarcò una volta verso l’Elba, terra divenuta adesso feudo lombardo dalle strade budelle senza parcheggio.

Ci voleva un genio, Paolo Virzì, per trasformare Livorno in una città stupenda. Applicando perfettamente la sindrome da Paperoga, già esposta mesi fa, il geniale pelatone del cinema ha reso bello quello che era quasi anonimo. Ha trasformato, grazie a Ovosodo, la Roma toscana in una perla del Tirreno. Livorno è divenuta, attraverso Paolo e attraverso il genio che fu del Vernacoliere, da luogo in cui si mangia una zuppa (buona, eh) e si fanno due passi su una spianata di quadri bianchi a neri, a posto dell’anima. Terra eletta per i livornesi, in tasca a noi fiorentini: che già i vari Jonathan, Thomas e Southampton, ci prendevano in giro da piccoli perché non sapevamo fare i tuffi a bomba dagli scogli: con le infradito di moda, ora, ci fanno diventare piccoli come Ciwati dopo le primarie.

Livorno è uno stato mentale, non è un luogo. È la condizione per cui se alzi la voce e fai la battuta forte sei simpatico. È la situazione nella quale anche Margherita Buy riuscirebbe a stare a suo agio, perché considera Livorno una gabbia di strani personaggi che urlano in maniera caratteristica e in definitiva sono i duri e puri “de sinistra”. Talmente “de sinistra” che si sono votati un sindaco con il cognome veneto a cui rigano la macchina a giorni alterni. Boia de’.