La vedi la scala imperiale? Ecco, è la strada sbagliata. Sotto la scala c’è un passaggio, una porticina. C’è un ascensore; siamo al terzo piano”. L’ascensore era rotto e le scale le ho fatte a piedi: quasi un rito iniziatico per entrare nella dimora dei Lucanìa, o almeno della loro voce narrante, Massimo. Mi ha accolto una tavolata di persone, una tazza di tè (“Di solito beviamo birra, mi raccomando, scrivilo!”), una premura antica nel rivolgersi l’un l’altro, “solo perché ci sei tu, sennò ci mandiamo a quel paese!”.

I Lucanìa sono porte aperte, un braccio offerto per un ballo a cui ci si lascia andare senza conoscerne i passi. Sono nati nel 2009 dall’incontro con le ricerche etno-musicologiche di Pino Gala sui suoni della Basilicata, registrati sul campo, spesso di nascosto per non mettere a disagio l’esecutore.

LA FORMAZIONE
Negli anni si sono avvicendati tanti elementi e il racconto li contiene tutti, una formazione in continua evoluzione che non perde le tracce di nessuno dei passaggi. Carlo è la memoria storica del gruppo: mi racconta della festa della Pita del suo paese in Calabria, di come la musica e il ballo vi siano intrecciati indissolubilmente e di come questo sia alla base dell’incontro con l’anima lucana di Massimo e Giovanni; porte aperte, dicevamo, da un punto di vista umano e musicale. C’è Luca, che viene da Terni; si destreggia tra diamonica e boutzouki e trascrive le parti per tutti (“le leggessero, almeno!”). C’è Marco che suona i tamburi a cornice e determina gli accenti delle tarantelle e delle quadriglie di “055”, un album nato appunto a Firenze, la città che li ospita e che li ha fatti incontrare.

Lucanìa è stata per loro la via per ricreare il senso di comunità di quella terra che amano raccontare con rispetto e sobrietà, non tralasciando gli aspetti di povertà e di fatica, ai quali però si risponde con spirito di aggregazione. In cantiere c’è Apotropaica, un album che vuole essere “la realizzazione stessa di questo principio”: un lavoro di liberazione.