di Lespertone

photo: Zoran Orlic

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La prima volta che conobbi i Low fu in occasione di ‘Sunflower’. Era il 2001, all’epoca si vendevano e si leggevano ancora le riviste specializzate ed ogni scoperta aveva un sapore diverso. Era anche difficile reperire le cose, cioè non potevi farti un’idea di come suonava una band perché l’internet non era come adesso. I mensili che parlavano di musica, quindi, avevano il loro peso. E dovevi fidarti. Mi fidai. Una volta tanto mi disse culo. ‘Sunflower’ è il primo brano di un disco che si chiama “Things We Lost In Fire”. Mi andò di culo doppiamente perché alla fine dei giochi, in venti anni di carriera, non è certo una bestemmia definire quel disco come uno dei migliori della band. ‘Sunflower’ è un brano meraviglioso. È perfetto. E fu amore al primo ascolto. Parte con un giro di chitarra morbidissimo e avvolgente. Poi entra la batteria. È tutto incredibilmente banale. Fino alle doppie voci, quella di Alan e di sua moglie Mimi. Se esiste il paradiso, questa ne è la colonna sonora in filodiffusione quando tocca andare a fare la spesa. Per fortuna o per sfortuna, un po’ per motivi professionali, un po’ (molto) per passione, ascolto molta musica. E raramente ho ritrovato cose così belle. Da lì ovviamente cercai tutto dei Low e come spesso accade, andai a ritroso. Scoprii che sono un trio di Duluth, nel Minnesota. Non ho idea di come sia Duluth. Non riesco neanche ad immaginarmela. So solo che ci è nato Bob Dylan ma, così, a pelle, non mi dà la sensazione di essere una città troppo vivace. Sicuramente sbaglio e sarà la Berlino del Minnesota. Oltre alla coppia Alan Sparhawk, voce e chitarra, e Mimi Parker, voce e batteria, attualmente il gruppo è completato dal bassista Steve Garrington (ma ‘sti bassisti vanno e vengono con una velocità inversamente proporzionale al ritmo della band). In quell’andare contro corrente per scoprire cosa avessero fatto prima i Low, scoprii che debuttarono nel ’94 e, pazzesco, ero in ritardo di quasi una decade. Mi sono sentito in colpa e cercai tutto il rintracciabile con fare compulsivo. Il debutto si chiama “I Could Live in Hope” ed il suono della band dell’epoca – sì epoca, son passati quasi vent’anni, un’altra era in pratica – si inseriva in quello che comunemente si chiama slowcore (quello di Codeine e Black Heart Procession, per avere un’idea). Si tratta di qualcosa estremamente rallentato e minimale nell’utilizzo della strumentazione. Ma l’ho sempre trovato caldo e rassicurante. Fra “I Could Live in Hope” e “Things We Lost In Fire”, ci sono un bel po’ di dischi, tra cui un live ed un album metà cover e metà rarità, “Christmas”. Non ebbi dubbi, “Things We Lost In Fire” era il meglio del meglio sin qui prodotto. Una volta messo in pari, ho potuto seguirli passo dopo passo. Tra cui anche svariate volte dal vivo. Ne ricordo un paio meglio di altre. Non necessariamente particolarmente interessanti. Una, in occasione di concerto bolognese all’Estragon, con Alan nervosissimo. Presentavano “C’mon”, uno dei dischi post “Things We Lost In Fire”. L’altra, se la memoria non fa cilecca, sempre nel medesimo tour, al Primavera Sound. Era un’ora indecorosa. Vidi un milione di gruppi nella solita giornata e non stavo in piedi. Trovai posto a sedere e non so come feci a non addormentarmi. Cioè lo so, i Low fecero un concerto incredibile e non volò una mosca. Fra l’altro mi arresi definitivamente all’idea di proseguire la mia esperienza al Primavera. Forse fu la mia ultima partecipazione. O la penultima. Con l’ultima vissuta grazie ad una programmazione adatta e selezionata con cura come se dovessi entrare in geriatria per il tagliando di mezza età. Così come mi capita per gli Yo La Tengo con ‘I Heard You Looking’ – cioè l’attesa spasmodica di un brano in particolare, che più di altri ha da raccontare e ha con sé un’infinità di ricordi – col mio compare e accompagnatore ufficiale di concerti, quando tocca ai Low, aspetto sempre con un certa ansia, spesso nemica del resto del concerto, ‘Sunflower’, e non potrebbe essere altrimenti, ed una canzone che si chiama ‘California’, inclusa in “The Great Destroyer”, altro lavoro egregio di quei Low che ho seguito in contemporanea. Qui solitamente partono sguardi complici e commossi. Un po’ come accadrà al Puccini, quando presenteranno “The Invisible Way” (rece sul numero di marzo di Lungarno NDR). Perché lo so, mi commuoverò a vederli nuovamente sul palco. Però questa volta sarò bello comodo, non uscirò da una prova tipo Ironman per gli atleti del Primavera, ed al massimo mi sarò fatto dieci minuti di viaggio.