Parlare di Auschwitz senza creare un film strappalacrime dall’inizio alla fine è quasi impossibile, perché il semplice fatto di riportare fedelmente la storia fa piangere. Eppure Giulio Ricciarelli c’è riuscito al suo esordio come regista. Eliminando le scene di violenza e di orrore, ha lasciato che fossero i racconti dei sopravvissuti a creare le immagini nella mente degli spettatori. Questo taglio non ha compromesso le emozioni, rese da inquadrature suggestive di sguardi e di gesti e da molte frasi incisive tra le righe.

Sono ormai passati tredici anni dalla fine della Seconda guerra mondiale al momento in cui un giovane procuratore di Francoforte, Johann Radmann, sente parlare di Auschwitz dal giornalista Thomas Gnielka e dal suo amico ebreo Simon. Gli altri avvocati non vogliono saperne, ma Johann decide di scavare più a fondo perché a quanto pare c’è dell’altro che lui e gli altri della sua generazione non sanno. Con l’appoggio del procuratore generale Fritz Bauer, Johann si avvicina sempre più alla verità, nonostante gli ostacoli creati da chi non vuole sapere o preferisce dimenticare. Quello che emerge dalle indagini è terribile: gli ex soldati delle SS si sono rifatti una vita. I tedeschi vogliono lasciarsi il passato alle spalle e godersi il boom degli anni Sessanta. Ma questo non è stato possibile grazie a chi ha seguito la strada della giustizia. Con le indagini e le testimonianze di 211 sopravvissuti si sono aperti i processi di Auschwitz e la storia della Germania è stata cambiata per sempre. “I crimini nazisti non saranno mai più ignorati.”

Il filo rosso del film è voler contrapporre nettamente con inquadrature e montaggio le atrocità del passato e la gioia di ricominciare a vivere e far festa, che caratterizzava quegli anni. Il senso di Il labirinto del silenzio è centrato sui temi presenti soprattutto nei dialoghi tra Bauer e Radmann: sapere e ricordare sono armi importanti per un futuro

di Elisa Artini