Drive in è l’unico programma per cui vale la pena avere la TV. 

Federico Fellini

Si celebrano nascite e funerali, da sempre. Le nascite, in genere, interessano le formazioni politiche, da Alleanza Democratica di ieri a Sinistra Italiana di oggi, dove a colpi di sciabolate identitarie si cerca di rimanere sempre la minoranza della minoranza, altrimenti sai che noia non contestare. Per quanto riguarda i funerali, in Italia è il turno di un mito, epico quanto le dormite durante il Gran Premio di Formula 1 nei caldi pomeriggi d’estate, ovvero il funerale della cultura.
Già nel Dopoguerra, con l’avvento della televisione, la cultura era morta. Certo, perché imbarbariva i poveri operai che al rientro dalla fabbrica preferivano Rischiatutto a un libro di Gadda: l’avvento del colore fu peraltro osteggiato dall’“opposizione” dei tempi, non sia mai. Venne poi il dramma della TV commerciale, quella che trasmetteva sceneggiati come Dallas e Dynasty, veri responsabili delle sciagure sociali e culturali dei temibili anni Ottanta.
Il cinema. Il disco rotto de “il cinema è morto perché si rimane in casa a vedere la tv” era oramai un po’ vecchio: ci voleva un’innovazione, come la critica agli spot durante i film (polemica durata più di quella sul gol di Turone in Juventus-Roma), oppure una forte indignazione verso il videonoleggio. Perché in VHS non si trovava, strano a dirsi, Citto Maselli, ma solo Verdone o Nuti.
Funerali su funerali, indignazioni, lettere aperte e raccolte di firme. Ancora oggi. Ancora oggi alcuni non contemplano il cinema di intrattenimento zaloniano, perché diciamocelo, fanno molto più ridere Battiston e Diego Bianchi. Si fa addirittura appello a strategie industriali sul numero di copie in distribuzione: come se fosse stato l’invadente mercato delle multinazionali a decretare il successo dei Beatles e del gioco del calcio.

Le stesse voci adirate che proclamano il 2016 come punto massimo di deriva della cultura italiana non ricordano forse i record di  Chi ha incastrato Roger Rabbit? e Innamorato pazzo di Castellano e Pipolo. La cultura non muore, e non morirà mai. L’unico funerale a cui vorremmo assistere è quello dei dischi rotti dei falsi profeti di questo atteggiamento, utile quanto lo è stato Roberto Donadoni sulla panchina della nazionale di calcio.