Dal titolo sicuramente più che alle storie dei beniamini Batman o Spiderman viene da pensare ai manga giapponesi, ma il nostro “Lo chiamavano Jeeg Robot“, primo lungometraggio di Gabriele Mainetti, è una trasposizione molto particolare di un Marvel in una Roma contemporanea.

Enzo Ceccotti, romano di Tor Bella Monaca, non esattamente colui che si può definire stinco di santo, cade per sfuggire alla polizia in un barile di sostanze radioattive nel Tevere ed acquisisce superpoteri che inizialmente sfrutterà solo “per far del bene” a se stesso. L’incontro e poi il rapporto con Alessia lo cambieranno lentamente. Alessia, sua vicina di casa e figlia di un suo amico è impazzita dopo la morte della madre, è totalmente dipendente dal manga Jeeg Robot a tal punto di credere quel mondo reale. Quando si rende conto che Enzo ha poteri speciali lo inizia a chiamare Jeeg e riuscirà a trasformarlo veramente in Jeeg Robot, in un eroe vero come lo intendiamo tutti, uno che sceglie il bene e salva il mondo dal male.

Il personaggio di Alessia è costruito magistralmente come raccordo ingenuo tra una Roma fatta di delinquenza, spaccio, bombe, mafia, quasi una Roma fatta di pregiudizi e stereotipi reali, e un supereroe con attributi americani trasposto in un italiano mediocre.

Particolarmente attuale “la freccia” scagliata dal regista in riferimento al mondo dei social, contare il numero di visualizzazioni di youtube come segno di popolarità, la visibilità è intesa come unico valore importante da molti al giorno d’oggi.

Questo film viene presentato dalla critica come una pellicola di puro intrattenimento. Non è solo questo ma molto di più e molto di meno: molto meno perchè in un film d’intrattenimento solitamente sangue e violenza non regnano sovrane, e molto di più perché il supereroe americano rappresenta il modello per eccellenza di valori quasi snob e soprattutto inesistenti, mentre il nostro Jeeg è un supereroe umano, vero e un po’ burino.

 

di Elisa Artini