“Sicché” è il Super Attak dei fiorentini. Si mette ovunque, come un segno di interpunzione, una virgola, che, preso dal flusso delle tue considerazioni, inizi ad usare ossessivamente quando non sei convinto di quello che vorresti dire, come in questa frase.

“Sicché” è un cerotto, un pezzo di colla che appiccichi fra due parole, un ponte che riempie una sospensione che sarebbe altrimenti priva di significato, un intervallo di tempo pieno che dà al fiorentino la possibilità di scegliere meglio le sue prossime parole. “Sicché”, con la semplicità di una doppia “c” che congiunge “sì” e “che” risveglia l’attenzione dell’interlocutore preso a pensare che cosa potrebbe risponderti: ascoltami, sono qui, sicché.

“Sicché” non lascia tempo a nessuno d’intendere la tua perplessità. Meno borioso di tutti gli “allora”, “dunque”, “ebbene”, “insomma”, “sicché” si appoggia umile dentro tutti i discorsi. Il suo valore consecutivo agisce di soppiatto e senza farsi notare abbraccia una serie di considerazioni sconclusionate che assumono una forma tutta d’un tratto profonda. Come un miracolo, “sicché” trasforma l’acqua in vino.

Nel “sicché” si comprime tutto. La tua collera, il tuo senso di solitudine, il tuo desiderio sessuale, la tua ironia fraintesa, la tua voglia di non discuterne, il tuo bisogno di parlarne con qualcuno. “Sicché” è tutto e niente e nell’assolutezza della sua condizione regna sovrano in tutte le conversazioni fiorentine.