In uno sperduto paesino del Texas, Lucky, conduce fieramente la sua solitaria esistenza di novantenne ateo, fatta di rituali irrinunciabili come la ginnastica mattutina, il bicchierone di latte gelato appena sveglio, le parole crociate al bar e due chiacchere svogliate assieme al suo amico Howard (David Lynch) e altri bizzarri avventori di un piccolo pub al calar della sera.

Lucky è inserito appieno nel tessuto cittadino ma ne resta pur sempre volutamente distaccato, fin quando una mattina cade rovinosamente sul pavimento. Il medico lo rassicura sulle sue condizioni, mali dovuti all’età che avanza, gli consiglia sommessamente una badante ma lui non ne vuole sapere. Lucky da questo insignificante episodio capisce che la fine si avvicina e comincia quindi il viaggio alla scoperta di se stesso.

Poetico e profondo il primo film di John Carrol Lynch perfettamente ritagliato su quel gigante della recitazione che risponde al nome di Harry Dean Stanton alla sua ultima, vagamente autobiografica, prova davanti alla macchina da presa prima della scomparsa nel settembre dell’anno scorso.

È un film che si muove su ritmi cadenzati imitando la testuggine centenaria di Howard che nessuno sa dove sia. Si alternano infatti momenti di leggerezza e momenti di profonda riflessione sulla morte, agevolati da dialoghi quasi mai banali. Il regista ha ammesso di aver costruito il film sulla figura di Harry Dean Stanton inserendo veri e propri sketch che lo stesso attore metteva in scena quando entrava nel suo bar preferito a Los Angeles. Bella anche la colonna sonora che si serve di una bellissima “I see the darknessdi Johnny Cash per il finale.

Il risultato è senz’altro positivo perché la difficoltà del tema si presterebbe a letture banali e retoriche, mentre il film si tiene ben lontano da esse costruendo una storia credibile, che descrive perfettamente l’America lontana dai riflettori di un paesino polveroso del Texas, in cui un vecchietto novantenne scopre che l’anima esiste e che non è mai troppo tardi per cominciare a nutrirla.