Quando prendo accordi per incontrare Le Pietre dei Giganti nella loro sala prove, mi rendo conto di averne anche io le chiavi. In città, i luoghi dove si può suonare fino a tarda notte senza disturbare il vicinato sono pochi, e prima o poi li giri tutti, tra un progetto musicale e l’altro. In questo caso siamo a Scandicci, in una selva di garage, almeno tre dei quali dedicati a sale prova: nel 27 e nel 55 sono entrata almeno una volta; in uno degli altri, dovremmo forse seguire la scia del suono per trovarlo, ha lo studio Samuele Cangi.

foto: Margherita Bandini

Al 55 mi aprono Lorenzo, Francesco, Nicco e Francesco, mentre provano i pezzi di “Abissi”, l’album d’esordio, in uscita a inizio 2019, della formazione che conosciamo già per l’ep Fanno male! 

Il riferimento alle pietre vuole essere una traduzione di stoner, anche se appena tocchi i fondamentali del genere sembri essere fuori dalla definizione”; alle mie orecchie i fondamentali del genere ci sono tutti: un rock alternativo solido e ben strutturato, una voce che incalza senza fretta ma inesorabile, i distorti del basso in dialogo con gli assoli di chitarra, nei quali percepisco il “vicino oriente” dei Muse. Il tutto è più “orientato alla comprensione” rispetto a prodotti più “urlati”, forse anche rispetto alla prima produzione della band, anche grazie all’utilizzo bilanciato dell’elettronica e dei campionamenti a rendere il tutto più ricco di sfumature.

“Abissi” è ben rappresentato dalla sua copertina, che vediamo in anteprima e che reca una falena, animale totemico, guida, poiché “nella notte cerca la luce”. L’esemplare scelto al Museo La Specola ha una bruciatura sull’ala: il riferimento al fuoco ricorre nei loro testi, come fiamme“che non riscaldano ma ci permettono di capire se abbiamo gli occhi ancora aperti”: il loro infatti è un lavoro sulla conoscenza di se stessi, sul percorso interiore che a volte fatichiamo ad intraprendere ma che è l’unica via d’uscita “all’approccio culturale italico dell’insoddisfazione e dell’inadeguatezza”.

 

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