di Laura Campiglio

In questi tempi di cinismo compiaciuto è giunto il momento di schierarsi a difesa dell’ultimo, strenuo baluardo di un romanticismo insidiato dal disincanto della modernità: la cioccolatosa ricorrenza di San Valentino, che una certa retorica antiromantica vorrebbe far apparire come un’orgia consumistica avulsa dall’amore.

È vero, se guardassimo il 14 febbraio con lo sguardo malevolo che Ebenezer Scrooge riservava al Natale, San Valentino potrebbe apparirci una bieca scusa per sdoganare pizze a forma di cuore, completini intimi vagamente postribolari, camere a metà prezzo in pausa pranzo nei motel (lodevole iniziativa per coloro che, essendo capaci di grandi sentimenti, festeggiano la giornata degli innamorati non una ma due volte, di giorno con il partner ufficioso e di sera con quello ufficiale).

Ma la ricorrenza è invece densa di nobilissimi significati che si riconnettono all’essenza ultima dell’amore, a cominciare dall’agiografia del Santo a cui è dedicata (che come tutte le agiografie della prima cristianità non finisce proprio benissimo, ma vabbè): era il 14 febbraio 273 quando Valentino da Terni, vescovo della chiesa cattolica, venne catturato su ordine di Aureliano per aver celebrato il matrimonio tra una giovane cristiana e un legionario pagano. Appena ricevuta la benedizione, i due giovani muoiono sul colpo (troppa gioia? …chi può dirlo!), mentre poco dopo il martire viene decapitato. Un inno alla vita, indubbiamente.

Il percorso che ha portato dalla decollazione del Santo ai cioccolatini cuoriformi è incerto ma costellato di notevolissime pietre miliari: come dimenticare, per esempio, l’immortale passaggio dell’Amleto di Shakespeare in cui Ofelia (scena V, atto IV) promette al principe di Danimarca che all’indomani avrebbe bussato alla sua finestra “to be your Valentine”? In seguito, com’è noto, Ofelia muore annegata in un ruscello, ma questo dettaglio non deve distoglierci dalla natura gioiosa della festa.

Festa che, ricordiamolo, affonda sincreticamente le sue radici nell’antichità: San Valentino è infatti la versione ripulita dei Lupercalia romani, che si tenevano dal 13 al 15 febbraio in onore del dio Luperco, protettore delle greggi. In queste giornate i nostri antenati – gente che si sapeva divertire – radunavano un gruppo di giovani sacerdoti detti appunto Luperci che, vestiti solo di pelli di capra e armati di frustini di cuoio, si producevano in un’allegra scorribanda per le vie della città vibrando colpi ora al suolo, così da fecondarlo metaforicamente, ora alle donne che capitavano loro a tiro, le quali erano ben liete di offrire il proprio ventre nudo per garantirsi il bene supremo della fertilità. C’è forse qualcosa di più romantico di questa sublime immagine che ci regala la storia antica?

Non meno suggestivi sono gli spunti offerti dalla storia moderna: è il 14 febbraio 1929 quando a Chicago Al Capone stermina la banda di Bugs Moran in quella che giustamente passa agli annali come la “strage di San Valentino”.

Ma se tutto questo non fosse ancora abbastanza per festeggiare degnamente una così lieta ricorrenza, non disperate, oh voi cinici: potrebbe essere San Valentino stesso a far miracolosamente attecchire nei vostri animi aridi il prezioso seme del romanticismo.

Io stessa ero, in passato, la più accanita detrattrice della festa degli innamorati, finché io e il mio secondo marito (che all’epoca, essendo due spiriti nobili, eravamo entrambi sposati con altri) non fissammo un incontro clandestino proprio a Firenze, a metà strada tra Roma (lui) e Milano (io).

Avevamo un po’ perso la cognizione del tempo, ma quando la mattina successiva la colazione in camera arrivò corredata di rosa rossa e altre zuccherose smancerie realizzammo che sì, effettivamente era il vituperato 14 febbraio, data nefasta che avevamo giurato di non festeggiare mai. Ma siccome eravamo spudoratamente innamorati, realizzammo anche che avremmo festeggiato eccome, quel giorno e possibilmente per sempre. E niente, sono passati dieci anni: buon San Valentino amore mio.