Sei in anticipo. Sei un tipo puntuale, in termini generali, ma sei anche una persona che, se ha sufficiente tempo, finisce per uscire all’ultimo momento e costringersi ad affannarsi per strada. Una contraddizione solo apparente, a pensarci bene. Ma non è comunque il caso di stasera. Oggi vieni da lavoro e quindi darle appuntamento in centro era semplicemente naturale. Parcheggi la bici, leghi alla rastrelliera entrambi i lucchetti (ruota e telaio, ruota e sotto-sella). Di solito lo fai di fretta e ti scocci delle serrature male oliate, che con la pioggia aumentano l’attrito con la chiave. Ma oggi no. Respiri profondamente perché sai che, se vuoi anche solo sperare di portare una frase dall’inizio alla fine senza intoppi, avrai bisogno di tutto il fiato a tua disposizione, di respirare dal diaframma. E possibilmente senza dire sciocchezze. Ma a questo sai che è meglio non pensare. Vai a sederti sulle umide panchine marmoree di piazza Santa Maria Novella, dando un’occhiata veloce per accertarti di non inzupparti oltre la decenza. Nessuno vorrebbe alzarsi col sedere chiazzato durante quello che considera un appuntamento. Cosa consideri lei – questo è tutto un altro paio di maniche.

La piazza è trapezoidale. Le facciate dei palazzi formano angoli fastidiosi ai tuoi occhi, geometrie irregolari e spietate. C’è poca gente in giro. Una ragazza si affretta a raggiungere il negozio di prodotti orientali all’angolo, che ha già la serranda a metà; un turista richiama l’attenzione di un taxi in coda sul lato corto della piazza. Hai un quarto d’ora. È un sacco di tempo. Quand’è l’ultima volta che sei uscito con qualcuno? Qualcuno che sapeva che stavate uscendo insieme? Fanno tre anni, a gennaio. L’ultimo lo puoi attribuire alla quarantena, ma i precedenti… Già il fatto che tu tenga il conto rende l’idea. E lei? È carina, sì. Fa l’assistente sociale. Dopo la psicologa, l’assistente sociale. Forse fanno tutte parte di un’associazione filantropica che si occupa di convincere i disabili mentali di avere un potenziale romantico o sessuale, arrivi a pensare. Ma sai che non devi alimentare questa sorta di sindrome dell’impostore. Si può scegliere cosa pensare e tu, su quella panchina più fredda di quanto sperassi, scegli di pensare che tutti sono nervosi a conoscere qualcuno di nuovo, che tutti si sentono sciocchi e poco interessanti, che tanti – non tutti, ma nemmeno così pochi – hanno appuntamenti dopo mesi oppure anni dall’ultima volta e che tutti, veramente tutti hanno avuto una qualche storia d’amore finita male. Quindi non c’è ragione di sentirsi speciali stasera. Come si dice in questi casi: sii te stesso e andrà tutto bene.

Nove minuti. Se sarà puntuale. Da dove arriverà? In teoria da via della Scala, se fa la strada che faresti tu al suo posto. Hai la tentazione di prendere in mano il cellulare per passare il tempo, mandare un messaggio a Martino (“ehi, sono qui, speriamo bene, avrà capito che le ho chiesto di uscire?”, “Certo che l’ha capito, Casanova, non sei questo grande mistero, eh”, ti risponderebbe), ma non lo fai. Non vuoi che ti veda al cellulare. Potrebbe pensare che sei uno di quelli che non sanno stare in compagnia di sé stessi nemmeno per i sette minuti che vi separano. E soprattutto non vuoi che pensi che sei un impaziente che appena arriva in un luogo scrive “Sono arrivato”, formula edulcorata per “Dove sei?”. Vuoi darle l’impressione di avere tutto il tempo che vuole. Di essere uno tranquillo, che sta bene da solo, e sta bene pure con lei. No: uno che sta bene da solo ma che se c’è pure lei, meglio. No: uno che sta meglio quando c’è lei. Troppo, ve’?

– Ciao!

– Ehi, ciao! Non ti ho vista arrivare…

– Ho fatto due passi a piedi, vengo dal Lungarno! Sei appena arrivato?

– Qualche minuto, niente di che, ero già fuori…

– E perché hai ancora il casco in testa?

Ride. E ridi anche tu, di riflesso. La mano corre a tastare sotto al mento, quasi per verificare che non sia un’allucinazione la sensazione di avere un peso in testa, che senti solo adesso, tutta insieme. Già che ci sei, lo slacci e lo sfili via. Lo tieni con entrambe le mani, davanti a te, poggiato sulle ginocchia, come un enigma da interrogare. Perché hai ancora il casco in testa?

– … È una lunga storia, temo!

Non sai da dove esca quest’autoironia vagamente seduttiva, ma pare funzionare nel toglierti dall’imbarazzo. Lei ride.

– Beh, abbiamo tutto il tempo. Che dici, andiamo?