Ormai è risaputo: il lavoro nobilita l’uomo. Ma quando diventa una necessità negata o quando viene mosso unicamente dalle logiche del denaro, il lavoro è soprattutto un bel tormento

Lo sapevano bene quei lavoratori che all’inizio del secolo scorso si recavano in Maremma per racimolare i pochi spiccioli che sarebbero serviti a campare qualche mese. 

Per raggiungere le amare terre toscane i contadini salivano su di un treno chiamato “della leggera” proprio perché i suoi passeggeri, uomini dall’impiego incerto e malpagato, viaggiavano con un bagaglio tutt’altro che pesante, riempito di fame e poco altro. 

Non è dunque difficile immaginare perché queste migrazioni di braccianti fossero solite intonare l’omonima canzone de “La Leggera”, un brano che suona come la fantasia in musica di chi fino a quel momento si è spaccato la schiena per due soldi e che adesso, per il tempo del canto, sogna di potersi permettere una vita più semplice, un’esistenza in cui, senza tanti pensieri, si è pronti a tirare in causa la legge e perfino i santi pur di avere una giustificazione valida per non lavorare.

Effettivamente, il termine “leggera” nel tempo è diventato un’espressione gergale per indicare sia la tragica levità della miseria, che quella dei suoi più fidati rappresentati: vagabondi, perdigiorno, disoccupati e quindi “per estensione” stagionali e precari. 

In questa accezione la canzone rientra in una vasta tradizione a cui si ricollegano sia la famosa “lingera” lombarda che quelle delle altre regioni del centro-nord Italia. Tante sfumature diverse per indicare lo stesso microcosmo popolato dai dimenticati della società. Attenzione però a non farsi ingannare da quella che ha tutta l’aria di essere un’irriverente dichiarazione d’amore alla nullafacenza: a discapito delle apparenze, “La Leggera” è a tutti gli effetti da considerarsi una canzone di lavoro, in cui sono udibili gli echi della ribellione che di lì a poco sarebbe avvampata nella lotta proletaria

Il brano, come spesso accade nella musica popolare, è conosciuto con innumerevoli varianti: nell’ambito di un canto vivo e collettivo che si trasforma viaggiando nel tempo e nello spazio, concetti quali “corretto” e “originale” perdono il loro valore di unicità. 

In ogni caso, in Toscana una delle versioni più amate è quella recuperata dalla ricercatrice Caterina Bueno durante uno dei suoi viaggi in cerca di memorie da strappare alla nebbia del tempo. E proprio di questa, vi proponiamo l’ascolto.