di Aura Fico

Si è concluso ieri mattina il percorso di Libernauta, progetto parte del festival de La Città dei Lettori che coinvolge giovani student* dai 14 ai 19 anni con l’obiettivo di avvicinarl* alla lettura non solo per brevi periodi ma facendo in modo di lasciare dietro di sé l’amore e la passione per i libri. Il primo ospite speciale della giornata è Amir Issaa, rapper e autore di “Educazione Rap” (Add editore), libro inserito nella lista dei 15 titoli proposti da Libernauta. 

Amir Issaa oltre ad essere uno dei fondatori del Rome Zoo, collettivo che vanta nomi storici della scena rap romana come Colle der Fomento, Cor Veleno, Flaminio Maphia e Piotta, è anche un’attivista che attraverso la sua musica affronta temi complessi, come ad esempio il riconoscimento della cittadinanza italiana ai figli degli immigrati. Inoltre Amir utilizza il rap come mezzo di comunicazione e forma didattica attraverso laboratori di scrittura in varie scuole e università, italiane e internazionali.

Abbiamo fatto qualche domanda ad Amir che si è dimostrato subito disponibile al dialogo, cosa che abbiamo apprezzato moltissimo e di cui lo ringraziamo. 

La prima domanda che gli pongo si riferisce ad un capitolo in particolare del suo libro in cui Amir si trova a dialogare con un collettivo di Roma per l’utilizzo della parola “tr*ia” nel suo celebre pezzo “Questa è Roma”.

“Quando stavo scrivendo il ritornello di “Questa è Roma” volevo fare un elenco di quello che vedevo camminando per la città “i campetti, le bische, i quartieri e il fiume”. Una cosa iconica di Roma, in Via Salaria, è la prostituzione e all’interno della canzone ho usato il termine “troie”. Ho usato quella specifica parola per due motivi: avevo letto Pasolini e quando parlava delle donne che facevano quel mestiere, usava il termine puttane. Io mi sono sentito quasi legittimato ad usare quel termine riprendendo un grande scrittore del calibro di Pasolini, l’ho fatto ingenuamente. Poi ho incontrato un collettivo di Roma con cui ho avuto occasione di riflettere sul tema, loro mi hanno fatto notare che il linguaggio è importante e termini come puttana e troia dovrebbero essere sostituiti con “sex worker”. Questo incontro mi ha fatto fare un passo indietro.  Sono cresciuto in una casa di donne, con mia mamma e mia sorella, non c’è mai stata una figura paterna quindi ho sempre avuto rispetto estremo per la figura della donna. Nella mia discografia non ho mai usato parolacce buttate lì, quando scrivevo il mio sogno era poter far ascoltare le mie canzoni a mia madre, quindi quando dovevo usare una parola ci pensavo 100 volte.” Stessa cosa con mio figlio, quando è nato avevo 21 anni e ho pensato che non avrei mai voluto che un giorno ascoltasse le mie canzoni e pensasse “Mio padre è un coglione”. Noi scegliamo le parole da usare ma ci stiamo sempre rivolgendo ad altri e ci sono delle persone che possono sentirsi offese di termini che utilizziamo. 

Lavori molto con i ragazzi giovani, collabori con le università, come vedi il mondo del rap oggi tra views, youtube e social network?

Il rap decodifica e reinterpreta quello che succede nella società. Negli anni 90 avevamo un approccio differente perché la società era diversa, non esisteva internet, c’era più impegno da parte di tutti su certi temi. Ricordo che eravamo interessati alla politica, anche i ragazzi di oggi sono interessati ma lo fanno in maniera diversa, come Fridays for future, realtà che partono dal basso dove i ragazzi si uniscono e fanno azione politica. Per me questo è bello, è fuori dai partiti e da quel sistema. Quando ero piccolo c’era ancora la divisione tra comunisti e fascisti, i miei amici andavano a fare gli striscioni nei collettivi. Il rap decodificava quello e lo raccontava in Italia, andavi a manifestare e trovavi la canzone, che ne so, degli Assalti Frontali o di altri. Oggi il rap si adatta ai cambiamenti di una società sempre più materialista ed individualista, è la colonna sonora, non la causa. In un mondo dove le donne faticano ad emergere, faticano anche nel rap, anche se va detto che ci sono molte donne che fanno parte della scena rap dagli anni ‘80. 

Che risposta ai ricevuto dai ragazzi così giovane a questo tipo di progetto?

Il mio è un lavoro di divulgazione, non di convincimento. Non devo convincere i ragazzi che è meglio ascoltare conscious rap rispetto ad altro, ci devono arrivare da soli. Se a 14 anni ascolti un certo genere e arriva tuo zio a dirti “no devi ascoltare quello che ascoltavo io”, vai ancora più in fissa. Per non creare scontro generazionale tra il rap storico, l’old school e la trap, inizio con lo spiegargli che i loro idoli di oggi ascoltavano la nostra musica quando erano piccoli. Uno dei video che faccio vedere nei miei laboratori è Public Enemy “Fight the power”. Una canzone che parla di protesta, e spiego ai ragazzi che io da piccolo non sapevo chi fosse Malcom X o Rosa Parks, è stato il rap a farmi scoprire molte cose. L’obiettivo è far conoscere ciò che c’era prima facendo sì che i ragazzi lo capiscano e comprendano, poi sta a loro scegliere.

Mi impressiona sentire quelli della mia età parlare di certe cose nelle canzoni mi imbarazzo, o non hai capito o continui a cavalcare un personaggio che ti fa vendere dischi e fare soldi. Molti di loro non hanno figli e questo ci fa capire che se non sei in contatto con le nuove generazioni non ci fai neanche caso e non capisci quanto impatto possano avere le tue parole. Oltre al guadagno e ai soldi c’è la responsabilità di ciò che trasmetto a chi viene dopo di me. 

Come ti approcci ai ragazzi con cui collabori? 

Devi saperci lavorare con i ragazzi, lo faccio da tanti anni e mi piace molto, abbiamo ottenuto dei bei risultati. Devi arrivarci in punta di piedi senza giudicarli, spiegare la tua esperienza di vita senza pretendere di cambiare le cose subito, bisogna essere realisti. Vivono un momento in cui sono circondati da coetanei, tendono all’omologazione. Per noi vivere il rap era andare contro l’omologazione, sceglievamo di far parte di una nicchia. Oggi è il contrario. Quello che era alternativo quando eravamo piccoli è diventato la massa di oggi, come altre subculture, ad esempio il punk. Oggi non si può tornare indietro, nel mio piccolo posso fare quello che sto già facendo, fare cultura, divulgazione, trasmettere knowledge, poi sta a loro decidere cosa farne. Se all’interno di una classe anche solo uno studente mi ascolta, magari esce e ne parla con gli amici. 

Bisognerebbe fare educazione all’ascolto, sto iniziando a proporre progetti nuovi che non saranno più laboratori di scrittura di rime, ma saranno “club del rap”. Scelgo dei testi di rapper attuali e non, li ascoltiamo insieme e ne discutiamo, facendo capire che si può ascoltare ogni tipo di musica, anche il rap più “duro”. L’importante è essere cosciente che quella è una storia che dopo 3 minuti finisce e la tua vita continua. È importante capire cosa è la finzione e cos’è l’emulazione come nel cinema. o ragazzi si sentono gangster rap e poi vogliono rifare le stesse cose, non è un gioco, anzi.